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Solo i luoghi filmati coprono un'estensione geografica notevole, che probabilmente colgono in pochi, ma il punto è che coglierlo non è importante - basta capire che va tutto considerato come un'unità e non un territorio suddiviso in tanti piccoli stati impermeabili tra loro. Quello che accomuna Baikonur in Kazakistan ai nuovi deserti in Karakalpakstan, le torri del vento zoroastriane della Corasmia alle sorgenti sacre e alle foreste endemiche di noci del Kirghizistan, le case pamiri in Tagikistan e i minareti di Bukhara col suo sostrato persiano è il rapporto ancestrale, mistico, tra le persone e la natura abitata da spiriti che non hanno smesso di parlare loro da millenni a questa parte. I culti hanno solo cambiato forme, tempi e luoghi.
Ecco, solo quell'estensione dà alla mostra una portata che travalica il passaporto uzbeco dell'artista.
Quando sono stata a vedere al cinema un'altra opera di Ismailova, l'intervistatrice italiana ha scioccamente supposto che la lingua parlata nelle immagini in movimento fosse uzbeco. Ismailova ha risposto, senza fare una piega: "veramente è tagico. A Samarcanda e Bukhara si parla tagico, perché sono aree abitate da tagichi".
La traduttrice ha tradotto in italiano, poco dopo, che "il film è in tagico perché a Samarcanda e Bukhara vive questo popolo... i tajik".
La complessità a volte è talmente semplice, da quelle parti, che a chi vive immerso in Occidente pare inconcepibile, e invece laggiù fluisce come le acque limacciose e mosse del possente Amu Darya. Le etichette non funzionano, i sillogismi falliscono: dobbiamo arrenderci davanti a una matassa che non sappiamo districare.
La cosa più istintiva che ho pensato, vedendo come Ismailova approccia il mondo intorno a lei, è che l'Asia Centrale, ma in generale proprio i luoghi, devono essere raccontati proprio così.
Dando meno importanza al luogo in sé in quanto polo attrattivo, e più in quanto anello di una catena, simile a tanti altri ma comunque unico e speciale anche nel suo essere minore. Sottolineando ciò che accomuna popoli, culture, luoghi, anziché ciò che li differenzia. Scavando in profondità nelle memorie delle persone, per bucare l'illusione che ci condanna a pensare che "sia sempre stato così". Trovare fili sottilissimi che ci collegano a tempi e spazi remoti, mentre intorno a noi tutto sembra diverso. Mostrare i luoghi attraverso le vite delle persone, i loro sguardi, i loro ricordi, creando geografie emotive. Dando spessore tragico ai luoghi, trovandone bellezza anche nelle difficoltà e nel risultato di grandi catastrofi. Allontanandosi dai cliché il più possibile. Spiegando meno, facendo immedesimare di più - perché, alla fine, è proprio questo ciò che rimane.
I posti sono limitati perché è una mostra che richiede uno spazio preciso per essere goduta e se ci fosse la folla non avrebbe senso trovarsi lì. Per me è stato un po' un teletrasporto e un modo per riconciliarmi con una regione che da molti anni mi affascina, ma che mi ha fatto anche molto male, che mi appaga e strazia, che mi esaspera e nutre insieme.
Ismailova per me è un esempio virtuoso di quello che l'Uzbekistan potrebbe rappresentare per l'Asia Centrale e il mondo intero - un luogo di scambi, di cultura e di diversità, e che invece viene svenduto a poco prezzo in una retorica nazionalista sciocca e stucchevole. Sguardi come quello di Saodat Ismailova sono fari nelle tenebre che dobbiamo rendere bandiere.
Andate a vederla, se potete.
Buonanotte, a presto ♥