C’è un sottile - e inquietante - filo invisibile che lega la storia di Ottavia Piana e il mito della caverna di Platone.
Nel mito del grande filosofo, gli uomini sono prigionieri in una caverna, costretti a vedere ombre proiettate sul muro da un fuoco alle loro spalle, senza sapere che esiste un mondo là fuori. Per loro quella è l’unica realtà possibile, prorpio perché non conoscono altro. Ma chi ha saputo rompere le catene e si è avventurato fuori, alla luce del sole, scopre che tutto ciò che vedeva prima era solo un’illusione.
La vicenda di Ottavia, intrappolata nelle viscere della terra, in una caverna, ci parla di questa stessa tensione: quella di chi prova ad andare oltre, a capire, scoprire; a volte anche solo vedere. Eppure, proprio in questo slancio, emerge una paura diffusa e spesso ingiustificata verso coloro che si spingono oltre i confini noti.
Anche se molti di noi non sognano di calarsi in cunicoli nel sottosuolo o di sfidare i limiti cosmici, l’innata curiosità umana iscritta nel nostro genoma ci dovrebbe portare ad ammirare e sostenere chi lo fa. La spinta all’esplorazione va oltre la ricerca di nuove terre o il desiderio di prosperità; c’è in noi una sete di conoscenza, un impulso a scoprire ciò che si cela oltre il confine conosciuto. La nostra tendenza a esplorare terreni ignoti, anche in assenza di necessità immediate, è unica nel regno animale. Abbiamo fatto nostro ogni angolo del globo in poche decine di migliaia di anni, e ora puntiamo i nostri sguardi addirittura verso Marte.
Questa follia di voler vedere oltre, di scoprire nuovi orizzonti, sembra quasi una condanna, un bisogno che non conosce riposo. Forse quello che dovremmo chiederci è quali sono le radici di questo impulso incessante: cosa ha spinto i nostri antenati a partire dall’Africa e raggiungere la Luna? Cosa li ha fatti uscire dalle loro caverne? In ogni era, le società umane hanno sviluppato tecnologie che hanno permesso l’esplorazione, dai più semplici strumenti per la conservazione del cibo alle sofisticate navicelle spaziali. Ed è
sempre emersa in parallelo la figura del pioniere assetato di ignoto, colui che è disposto a sfidare ogni limite. La figura di una Ottavia Piana qualunque che rischia la vita solo per entrare in una grotta e “tutti” dovremo pagare i costi sostenuti per il suo recupero.
Perchè oggi siamo diventati ossessionati dal controllo, dalla previsione dei rischi, come se fosse possibile rendere il mondo un luogo prevedibile. Ogni deviazione dal binario sicuro di casa-lavoro sembra essere un atto scellerato, un rischio immotivato.
Pensate invece a quante volte i singoli gesti, le piccole esplorazioni e il valicare un limite hanno contribuito a rompere un muro invisibile, mettendo gli altri - chi verrà dopo - nelle condizioni di affrontare una nuova dimensione, una nuova era. Di conoscere qualcosa di più. Il fatto di voler raggiungere una cima solo per scoprire cosa c’è dall’altra parte o aspettare che arrivi l’alba per vedere che effetto fa. Trovarsi davanti un'immagine inaspettata, per la prima volta, è sempre un'emozione. Il momento straordinario in cui passiamo dall'ignoranza alla conoscenza. Qualcosa di nuovo entra nella nostra prospettiva e ci trasforma. Sono certo che molti che stanno leggendo si riconoscono in questa dinamica, e sentono dentro di sé questo fuoco che brucia.
È forse questo che Ottavia cercava, anche se si trovava lì per lavoro: vedere il mondo con occhi nuovi.
Il mito di Platone ha però un epilogo amaro: chi esce dalla caverna e torna indietro per raccontare ciò che ha visto viene deriso, umiliato, perché la massa non vuole abbandonare le proprie certezze rassicuranti. Ma il monito è proprio questo: se vivi in una gabbia, non puoi essere più grande della gabbia che ti contiene.
Ora sta a noi scegliere: possiamo provare empatia per Ottavia, riconoscendo in lei una di noi che ha avuto il coraggio di guardare oltre. Oppure possiamo tornare a credere che la nostra grotta sia davvero tutto ciò che esiste.